Se fossimo stati attenti e se su Airbnb avessimo notato che l’appartamento si trovava nel Rione Sanità probabilmente non l’avremmo preso. E avremmo fatto male.
Non esser stati diligenti per una volta è stata una fortuna.
Dalla Stazione Centrale di Napoli si arriva con la metro, linea 1, direzione Piscinola, fermata Museo.
All’uscita della metro un panorama da città europea. Una villetta mal curata, strade larghe con quattro corsie, bus, taxi e tanti motorini. Attraversata la villetta si gira a sinistra e da una strada più stretta senza marciapiedi e con piccoli negozietti ai lati si entra nel Rione Sanità. Capiamo che quello è il Rione Sanità perché sui muri giallo ocra scortecciati c’è scritto “Rione Sanità” e accanto alla scritta c’è un logo grande che è quello del gruppo ultras del quartiere.
La strada è in salita, cento metri. Poi si gira a destra, i tipici bassi napoletani da una parte e dall’altra seguono la strada per altri cento metri. Si arriva al centro del Rione Sanità: a sinistra la pizzeria Concettina ai Tre Santi del pizzaiolo pluripremiato e famoso in tutto il mondo Ciro Oliva; a destra un altro gioiellino del quartiere, anche qui il proprietario si chiama Ciro, tanto per cambiare, ma cambia il cognome: si chiama Ciro Scognamiglio, detto Poppella, come il nome della sua storica pasticceria. Poco dopo la pasticceria, sul marciapiede, tra un negozio e un altro, c’è il mercato, è sempre aperto tranne la domenica: vestiti e scarpe, ma soprattutto cibo: frutta, verdura, tanto pesce, pane.
Il nostro appartamento non è sulla via principale, bisogna salire ancora ed entrare nel cuore della Sanità. Di fronte alla pizzeria di Ciro Oliva c’è una stradina in salita che dopo cinquanta metri svolta a sinistra. Cinquanta metri, due meccanici. Trenta o forse di più sono i motorini che riusciamo a contare in pochi minuti. Sfrecciano da un incrocio all’altro facendosi strada con il suono del clacson. A volte sul motorino sono in tre, ma ne abbiamo visto anche quattro. Solo una volta entrati a casa e fatta una ricerca sul quartiere, Google ci informerà che a pochi metri da lì la sera prima del nostro arrivo un extracomunitario dopo aver litigato con una donna in scooter è stato accoltellato. Poche ore prima, il 2 ottobre, una stesa. La stesa – dice la Treccani – è, nel gergo della camorra, una violenta azione di intimidazione consistente nell’attraversare velocemente a bordo di motorini le vie di determinate zone cittadine, sparando tutt’intorno con l’effetto di costringere le persone a stendersi per terra.
Chissà quanti proiettili hanno toccato le pietre su cui camminiamo. Ma su quelle pietre ha mosso i primi passi un certo Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio, detto Antonio De Curtis, in arte Totò. Noi abitiamo in Via Santa Maria Antesaecula, di fronte casa di Totò. Era proprio di fronte casa ma abbiamo dovuto utilizzare Google Maps per capire dove esattamente si trovasse la casa del grande Totò.
Un palazzo che letteralmente sta per venire giù a pezzi. Dalla nostra finestra si vede un balcone sorretto da una impalcatura in ferro, è quello il balcone dell’appartamento in cui è nato e cresciuto Totò. La casa però è inaccessibile perché pericolante.
E’ stata comprata da un privato dopo che undici aste sono andate deserte. Avrebbero dovuto costruire un museo e avrebbero dovuto aprire al pubblico la Casa di Totò, ma lì ancora non c’è nulla. I turisti chiedono a noi, passeggiando di fronte la casa del comico, dove si trova la casa di Totò. Non ci credono che non ci sia nemmeno un’insegna, un museo, un ufficio informazioni, un biglietto da pagare per entrare.
C’è un grande cartellone con il viso di Totò e in alto, accanto al balcone al primo piano, una targa commemorativa. Ogni tanto c’è un signore che vende statuette di Totò, accoglie i turisti e racconta le storie del Museo che ancora non c’è e della Casa che c’è ma ancora non è visitabile.
Le vie che circondano l’appartamento sono tutte strette, tutte in salita e tutte sono delimitate da case basse, con le finestre e le porte sempre aperte. Davanti le porte, in mezzo alla strada, gli stendibiancheria legati alla ringhiera e i panni stesi coperti da buste di plastica per proteggerli dalla pioggia.
La sera il viavai di motorini si intensifica e il rumore dei clacson entra nella testa.
Col clacson si saluta il conoscente, ma il clacson soprattutto funge da pass universale, serve per farsi strada tra auto e pedoni.
Facciamo una passeggiata, ho la action cam attaccata allo zaino e qualcuno lo nota.
Dicono che il popolo del rione Sanità (qui chiamano così gli abitanti del quartiere) non veda di buon occhio i turisti. Non sarà così, almeno per noi. Arriviamo sotto il murale di piazza Sanità, proprio di fronte la Basilica: si chiama Luce, è di Tono Cruz. L’opera di street art rappresenta dei bambini sorridenti al centro di un cerchio illuminato da un fascio di luce.
Continuando su Via Arena della Sanità, il corso del rione Sanità, passiamo da Palazzo San Felice.
Su Via Arena della Sanità, come nelle altre vie del Rione, ci sono tanti piccoli negozietti. Molti sono deserti, di persone e di merce. In cinque giorni entreremo solo in un piccolo market, in una macelleria, in un caseificio e in un sottoscala adibito ad attività commerciale con tanto di lavandino e di armadio. La gentilezza è quella che lo stereotipo vuole sia propria dei meridionali. Ed è proprio vero. Una nota costante è la presenza di immaginette e di statue dei santi anche dentro i negozi. Dietro il bancone del macellaio c’è la statua di un santo con delle candele accese ai lati. Incontreremo statue, candele, foto di santi e di defunti anche lungo la strada accanto ai portoni delle abitazioni.
Per tornare a casa ogni sera ripercorriamo tutte le vie strette e poco illuminate che ci portano sulla via principale e da lì alla pizzeria di Ciro Oliva, da lì su via Santa Maria Antesaecula e poi la casa di Totò e poi casa nostra. Sembra Gerace.
Se non conoscessimo la storia criminale di quel quartiere diremmo che siamo capitati nell’angolo più bello di Napoli. Prima di informarci su internet, però, sono le macchine della Polizia, i posti di blocco, le penne degli uomini in divisa che sulle gazzelle prendono nota delle targhe di auto e motorini e una brutta frase piena di insulti rivolti a un camorrista passato da poco da parte dello Stato scritta con una bomboletta su un muro a consegnarci la realtà cruda e dura che tutti conoscono e che noi vediamo per la prima volta dal vivo: quel quartiere non è un quartiere qualunque. Forse è il quartiere che più di tutti gli altri eleva alla massima potenza la napoletanità. La spontaneità, la semplicità, l’umiltà. I colori, l’azzurro del mare, del cielo e del Napoli, la sagoma di Maradona, la pizza di Ciro Oliva e i fiocchi di neve di Ciro Poppella, i motorini, i senza casco e i senza tetto.
A me il Rione Sanità è piaciuto. Mi son piaciute quelle persone che lì onestamente ci vivono. La gente della Sanità che dice di essere abbandonata dallo Stato, che è orgogliosa di Napoli, che si apre al mondo intero prima di chiudersi a riccio quando qualcuno – tradendo la generosità con la quale viene accolto – viola l’intimità di quei luoghi per raccontare solo il marcio.